Qui mi sento a casa
Ci ho messo un po’ a cominciare a scrivere.
Non mi è facile spiegare a parole quello che sto vedendo e vivendo ogni giorno qui.
Come rendere l’idea dei colori? Degli odori? Dei sorrisi delle persone? Il frastuono proveniente dal mercato? I clacson e i rombi delle moto? Come spiegare la paura che si prova davanti ai monsoni, quelli veri che inondano e distruggono le case?
Mi trovo a Mae Sot. Città di confine tra Thailandia del nord e Birmania.
Sono qui per lavorare in una scuola e per dare una mano in un campo profughi.
Sono qui perché all’Università studio Relazioni Internazionali e diritti umani.
Sono qui per lavorare alla mia tesi.
Sono qui perché da sempre sento un qualcosa dentro che mi spinge a recarmi in luoghi lontani, lontano da quello che è la vita nel mondo occidentale e con cui non riesco ad andare d’accordo.
Sono qui per imparare la gioia, quella data dal non avere niente. Il coraggio, quello che viene quando scappi da un paese militarizzato e vivi in condizioni disumane. La sofferenza, quella che ti distrugge e lacera dentro perché hanno ucciso tuo figlio, perché tua madre viene ripetutamente stuprata dai militari, perché da non hai nulla da mangiare, se non un pugno di riso.
Sono qui perché siamo cittadini del mondo e io questo mondo voglio vederlo.
Sono qui e sto imparando a vivere. Di nuovo.
Sono partita dall’Italia l’11 luglio, giorno del mio compleanno. Il viaggio è stato lungo e pieno di imprevisti. Aereo in ritardo e di conseguenza due coincidenze perse. Ritrovarsi in un aereoporto non si sa bene dove, non sapendo come arrivare, né a chi chiedere. Il panico si.
E poi arrivi a Bangkok ed è il caos. Clacson, rombi di moto, urla. E il traffico. Il traffico di bangkok che è un delirio di ingorghi senza uscita. L’umidità ti si avventa contro e ti soffoca, lasciandoti senza fiato in un bagno di sudore. Il cielo non si vede. Vi è un fitto strato grigio che ricopre la città, ma è così bella da togliere il fiato.
Da Bangkok a Mae Sot è stato il viaggio della speranza. Un aereo, che più che altro
sembrava una macchina con ali, a 16 posti, temevo andasse a pedali. Atterriamo in una lunga striscia di terra, dove c’è una torre di controllo e qualche ombrellone che distingue la zona arrivi dalle partenze. Un po’ come a Malpensa.
I primi ad accogliermi sono i monsoni. Valanghe d’acqua grigia che si infrangono al suolo. Ma subito dopo arriva Dan, australiano in pensione che vive qui con sua moglie Susan da circa 4 anni e che lavoreranno con me alla scuola.
Mi da giusto il tempo di posare valigia e zaino nella mia camera (un bungalow con portico spettacolare vista giungla, peccato per topi e serpenti che mi hanno costretto a traslocare) e di corsa a cena a casa sua, dove ci aspettavano Susan, Juliette e Nina ed entrambe lavorano nella scuola.
Zuppa Tom Jum, quella tipica thailandese, bottiglia di vino e fiumi di parole.
Mi trovo stordita dalla stanchezza del viaggio, dal sollievo dell’arrivo, dalle valanghe di chili e spezie che mi riempiono la gola e dai sorrisi di questi quattro sconosciuti che mi hanno accolto.
Giuseppe Malpeli prima di partire mi aveva detto che sarebbe stata un’esperienza difficile, dura e dolorosa, ma che tutto sarebbe andato bene se mi avessero accolto con affetto.
Ecco, io qui mi sento a casa.
Clelia D’ Apice