SCRITTI,  SCRITTI DI ALBERTINA SOLIANI

“Myanmar: il coraggio della democrazia in Asia” di Albertina Soliani

Pubblichiamo l’articolo di Albertina Soliani “Myanmar: il coraggio della democrazia in Asia”, uscito a dicembre sulla Rivista di Studi Politici dell’Istituto San Pio V di Roma. Leggi qui l’articolo in inglese.

MYANMAR: IL CORAGGIO DELLA DEMOCRAZIA IN ASIA (PDF)
Una testimonianza

1. Myanmar oggi: tra golpe militare e rivoluzione del popolo

C’è un Paese, in Asia, dove un popolo intero resiste in nome della democrazia: è il Myanmar, la Birmania.
L’inizio del XXI secolo vede in Asia segni che evocano la democrazia: manifestazioni in piazza e per le strade, specialmente di studenti, come a Hong Kong e in Thailandia. In Myanmar è disobbedienza civile e organizzazione anche armata: lo stesso segno della mano destra con le tre dita, il suono ritmato delle pentole, i cortei creativi, gli striscioni con le parole d’ordine, i ritratti di Aung San Suu Kyi, i fiori offerti ai militari.
Un’altra primavera, questa volta in Asia, che porta i segni del sogno inestinguibile della libertà.
La tempesta è piombata sul Myanmar, sul giardino coltivato da Aung San Suu Kyi, con il golpe militare del 1 febbraio 2021. Pochi mesi prima, l’8 novembre 2020, le elezioni politiche avevano sancito ancora una volta la vittoria schiacciante dell’NLD, la Lega Nazionale per la Democrazia, il partito di Aung San Suu Kyi, la leader birmana e Premio Nobel per la pace (1991), con l’82% dei voti. Il partito che affianca i militari, l’USDP (Union Solidarity and Development Party), ne era uscito umiliato con il 6,4% dei voti.
Il Capo dell’esercito, il Tatmadaw, il generale Min Aung Hlaing, che sognava di diventare Presidente della Repubblica, mentre era costretto al pensionamento per limiti di età, impose il golpe militare. Con la scusa di brogli elettorali, merce in circolazione in questi tempi anche nelle democrazie più avanzate, mentre gli osservatori internazionali avevano confermato la regolarità delle elezioni.
Scattò il golpe, con l’arresto immediato di Aung San Suu Kyi e del Presidente della Repubblica U Win Myint, e via via dei dirigenti di vertice e locali dell’NLD.
E scattò, immediatamente, la resistenza dell’intero popolo.
Nelle prime ore dopo il golpe, iniziarono i medici e gli infermieri, e poi gli insegnanti, la società civile, la gente comune. Con un vasto movimento di disobbedienza civile, il Civil Disobedience Movement (CDM), che ha paralizzato il Paese per mesi. Almeno 49 operatori sanitari sono stati uccisi nelle prime settimane.
Per la prima volta l’intero popolo del Myanmar ha opposto resistenza ai militari, e tuttora continua.
L’opinione pubblica mondiale sa molto poco della scelta del Popolo del Myanmar di rigettare il golpe militare, di impedire che si impadronisca del Paese ed eserciti il potere. Sa molto poco della scelta delle nuove generazioni di respingere il potere dell’esercito sul loro futuro, a prezzo della vita. Così scelgono i giovani, che hanno apprezzato negli ultimi anni la libertà, che sono connessi con il mondo, che sognano una vita migliore. Così scelgono gli adulti, che desiderano per i loro figli una vita diversa da quella dei genitori e dei nonni, vissuti per 60 anni sotto il regime militare. Così hanno deciso le donne, protagoniste attive della resistenza, alcune comandanti dei gruppi armati, o dedite all’organizzazione sanitaria e degli aiuti, nelle strade come nella foresta.
Sono iniziati gli arresti, le uccisioni. La prima ad essere uccisa in una manifestazione a Naypyidaw è stata Mya Thwate Thwate Khaing, il 9 febbraio, due giorni prima del suo ventesimo compleanno. Più di un anno e mezzo dopo, gli arresti sono più di 12.000, più di 2.200 le vittime civili, secondo le stime puntuali dell’Assistance Association for Political Prisoners (AAPP).
Con gli arresti sono iniziati i processi, le condanne, le esecuzioni. Almeno 90 le condanne a morte, alcune eseguite. Le prime dopo 40 anni. Le ultime sono state eseguite, dopo un’attesa angosciante, il 23 luglio 2022. Sono stati giustiziati: Kyaw Min Yu, noto come Ko Jimmy, Phyo Zeya Thaw, Hla Myo Aung e Aung Thura Zaw.
Strumento del regime è la propaganda con l’uso delle fake news. I militari cercano il controllo di Internet, di Facebook, è una sfida continua con il popolo.
Si va strutturando l’autoritarismo digitale seguendo il modello cinese.
I ribelli, nella foresta, cercano la connessione posizionandosi sugli alberi.
I lunghi mesi dell’oppressione militare ci consegnano un Paese devastato. Il popolo che resiste è per i militari il nemico da combattere, da terrorizzare, da stroncare. Muoiono soprattutto i civili, le donne, i bambini, gli anziani.
Giungono ogni giorno le notizie sulla disumanità dei militari che penetrano nei villaggi, sugli stupri, le torture, le mutilazioni, gli incendi. Nel villaggio di Taung Myint è stato decapitato Saw Tun Moe, l’insegnante di una scuola privata che aveva organizzato la scuola del Governo di Unità Nazionale (NUG).
I Mi-35 e i droni, acquistati dalla Russia, che supporta l’esercito del Myanmar, bombardano i villaggi, le scuole, le chiese. La gente fugge nella foresta, sono almeno 700 mila i rifugiati. Con loro anche suore missionarie.
Mancano cibo, medicinali, generi di prima necessità.
Scarsi, pressoché inesistenti, gli aiuti umanitari. È il popolo birmano, in Myanmar e all’estero, che sostiene chi ha bisogno. Il Covid-19 non è governato, ha mietuto molte vittime, gli ospedali sono nelle mani dei militari e i cittadini si rifiutano di andarvi. Crescono i disagi psichici. Un’intera generazione è a rischio, le scuole sono disertate. Un popolo intero è in enorme sofferenza. L’economia è al tracollo, sono deteriorate le condizioni di lavoro. Il Paese è isolato dal mondo.
Il popolo resiste e con il popolo le persone che guidano questa rivoluzione. Una rivoluzione che ha visto nel ‘900 la resistenza degli studenti, sempre soffocata nel sangue. Nel 1920, nel 1988, nel 1996, nel 2007 quando i monaci diedero vita in tutto il Paese alla rivoluzione color zafferano.
Oggi protagonista della rivoluzione è l’intero popolo del Myanmar, 55 milioni di persone.
Nella rivoluzione del Myanmar, decisive sono le persone. Aung San Suu Kyi l’aveva detto da tempo, il popolo è la chiave. Le persone decidono di lottare, di aiutarsi gli uni con gli altri, di sostenere la resistenza, di essere in prima fila, anche a costo della vita.
Sarà importante capire come mai un popolo intero si muove così, senza l’aiuto internazionale, senza lo sguardo internazionale.
Liberi dalla paura è il libro che raccoglie il pensiero di Aung San Suu Kyi, all’inizio del suo impegno politico. Determinante nella vicenda birmana è la chiave di lettura rappresentata dalla paura. Scrive Aung San Suu Kyi: «Non è il potere che corrompe, ma la paura. Il timore di perdere il potere corrompe chi lo detiene e la paura del castigo del potere corrompe chi ne è soggetto» (Liberi dalla Paura, 2005, p.183).
Oggi vediamo bene che la storia del Myanmar democratico è una storia di liberazione dalla paura. Questa storia vive oggi sotto i nostri occhi.
Nelle prime ore dopo il golpe, gli amici ci chiedevano dal Myanmar: arrivano i caschi blu? Noi sapevamo che non sarebbe arrivato nessuno.
Nei giorni immediatamente successivi al golpe, i parlamentari neoeletti, che il 1 febbraio 2021 avevano atteso invano l’insediamento del Parlamento, si sono resi latitanti e hanno costituito il Committee Representing Pyidaungsu Hluttaw (CRPH). Nell’aprile 2021 il CRPH ha dato vita al National Unity Government (NUG), costituito anche da esponenti della società civile e dei principali gruppi etnici.
Nel settembre 2021 il NUG ha costituito le People Defence Forces (PDF), l’organizzazione, presente ormai ovunque, che difende il popolo combattendo, attaccando i militari. Privo di fornitura di armi, le fabbrica anche in casa. Il sostegno viene dai gruppi etnici armati, dalle Ethnic Armed Organisations (EAOs).
Nell’aprile 2021 è stato costituito anche il National Unity Consultative Council (NUCC), una piattaforma di dialogo politico con tutte le organizzazioni contrarie al regime.
Ormai il NUG e il PDF controllano almeno il 52% del territorio del Paese, secondo un recente rapporto dell’ONU. Zone libere soprattutto nelle campagne, ma il PDF sta attaccando anche i presidi militari delle medie città.
Vi sono intere zone liberate, organizzate sul piano amministrativo per i servizi essenziali e per la giurisdizione. Una democrazia dal basso, come in Italia nella Resistenza con le Repubbliche partigiane.
I gruppi del PDF chiedono a noi assistenza tecnica, con la formazione e gli strumenti tecnologici: per la difesa dagli attacchi, per il disarmo dei militari catturati e la loro riconversione, per l’integrazione dei partigiani in un esercito rinnovato nella democrazia. Intanto formano i loro gruppi sul piano politico e su come resistere.
La rivoluzione è in diretta, e guarda al futuro. Con grande determinazione, con grande fiducia. Dicono i giovani: vinceremo, cambieremo il Myanmar.
Un anno e mezzo dopo il golpe, il Tatmadaw non ha vinto, non è in grado di governare il Paese, è isolato nel mondo.
La partita è aperta, il regime non ha prospettive.
Il popolo sì, è la sua forza.

2. Unità e pluralismo: verso il nuovo Myanmar

Nella storia del Myanmar, dopo il colonialismo britannico che ha usato le minoranze per consolidare il potere, e la successiva dittatura militare che ne ha stroncato l’anelito all’autonomia, l’identità del Paese si è sempre giocata tra unità e pluralismo. Questo è stato il cardine stesso dell’indipendenza, ottenuta dalla Gran Bretagna il 4 gennaio 1948, per l’azione politica di Aung San, il Padre della Patria. Il padre di Aung San Suu Kyi.
Nel febbraio 1947, alla Conferenza di Panglong, egli realizzò l’unità del Paese attraverso il dialogo con le molte etnie che lo costituiscono, almeno 135 quelle riconosciute.
L’assassinio di Aung San, il 19 luglio 1947, ha interrotto il processo appena avviato. Il regime militare, dal 1962 al 2010, ha impedito ogni positiva evoluzione, alimentando i conflitti.
Oggi la rivoluzione del popolo birmano e del NUG fa dell’unità nella pluralità la cifra dell’intero processo politico.
La Union Peace Conference – 21st Century Panglong, promossa da Aung San Suu Kyi dal 2016, come primo atto del suo governo, ha sostanzialmente preso atto dei problemi non risolti, confermando nell’orizzonte politico del Paese il tema prioritario: la riconciliazione e la pace tra i gruppi etnici, armati e non, per l’unione del Myanmar. Unità e federalismo, questo l’impegno di Aung San Suu Kyi in continuità con l’eredità del Padre.
Oggi il NUG intende costruire il nuovo Myanmar nello stesso orizzonte.
La rivoluzione ha compiuto un passo nuovo: il NUG e i gruppi etnici sono alleati nella resistenza al golpe militare. Essi lavorano per un Paese unito e federale, con piena autonomia per i territori. Di questo discutono il NUG e i gruppi etnici, questo stanno progettando. La scelta della libertà li ha subito uniti, il nuovo Myanmar sta già nascendo.
Lo stesso NUG è composto di rappresentanti dei diversi gruppi etnici, a cominciare dal Presidente, Duwa Lashi La, del Kachin National Consultative Council, molto stimato dal popolo.
Una grande novità è costituita dal dialogo tra il NUG e i capi della minoranza musulmana Rohingya. Un loro rappresentante è membro del NUG.
La svolta è avvenuta quando nelle manifestazioni per le vie di Yangon sono comparsi i cartelli con i quali si chiedeva perdono ai Rohingya, perseguitati nel 2017 dallo stesso battaglione dell’esercito che ora stava aggredendo i manifestanti.
Questo l’asse del nuovo Myanmar democratico, unito e federale, intorno al quale ruota la rivoluzione oggi in Myanmar. Esso determinerà inevitabilmente l’avvento di una nuova Costituzione, dentro un processo di dialogo e di riconciliazione nazionale.
Chi oggi partecipa alla rivoluzione in Myanmar sa che questo percorso è irreversibile e condurrà alla vittoria della democrazia.
È in questo orizzonte di unità e pluralismo, un destino per il Myanmar, considerate la sua configurazione, la sua cultura, la sua storia, che si deve iscrivere quel processo di riconciliazione nazionale, di cessione del potere da parte dei militari, di nuova sovranità popolare che non può che essere l’esito di una strategia che nasca dall’interno e abbia il sostegno della comunità internazionale.
Unità e pluralismo per il futuro del Myanmar, per un Myanmar stabile, pacifico, sviluppato che dia sicurezza a tutta l’area del Sud Est asiatico e dell’Asia intera.
Parliamo dei prossimi anni del Myanmar che dovranno essere dedicati alla ricostruzione materiale, morale, sociale, politica del Paese.
Un enorme cambiamento, che coinvolgerà tutti e investirà ogni campo della vita del Myanmar.
Questo cambiamento è già iniziato, nell’impegno del NUG e di quanti vivono la rivoluzione del popolo.

3. La comunità internazionale: l’assenza della politica, il silenzio dei media

La vicenda del Myanmar ha dell’incredibile: il mondo sembra lasciarli soli. Ne parla pochissimo.
La politica internazionale, i suoi strumenti, le sue organizzazioni, a partire dall’ONU, sembrano impotenti.
Le dichiarazioni indignate non sono ancora una politica.
L’unico gesto, essenziale, compiuto dagli altri Paesi del mondo, tranne pochissimi, è il mancato riconoscimento internazionale del regime. Alcuni, gli USA, l’UE, la Gran Bretagna, hanno deciso sanzioni che colpiscono decine dei più importanti responsabili del regime militare.
L’ONU continua a riconoscere Kyaw Moe Tun rappresentante del Myanmar presso le Nazioni Unite dal 20 ottobre 2020, designato da Aung San Suu Kyi e dichiaratosi contrario ai militari nei giorni successivi al golpe.
La diplomazia, in ogni sede, si muove con attenzione, evitando il rapporto con i militari. Nonostante le sanzioni e i divieti, qualche commercio continua, mentre i più importanti gruppi multinazionali hanno lasciato il Paese.
In questi mesi si sono intensificati i contatti formali e non formali, presso vari Paesi, con esponenti del NUG.
Non si intravvede ancora una strategia per imporre ai militari la cessazione delle violenze, la liberazione dei prigionieri politici, il dialogo interno.
L’attuale inviata speciale dell’ONU, Noeleen Heyzer, non ha conseguito finora nessun risultato, neppure a seguito di un suo viaggio a Naypyidaw. La precedente inviata, Christine Schraner Burgener, aveva invano chiesto ai militari di poter entrare nel Paese e di incontrare Aung San Suu Kyi.
Il fatto è che in Myanmar è la disumanità al potere. Nessuno sa come fermarla se non il popolo e i suoi gruppi di difesa.
Uno scacco per l’umanità in questo inizio del XXI secolo. La politica internazionale, così capace di dare spazio al business, all’economia, alla finanza, di fronte a un Paese in queste condizioni drammatiche non sa come muoversi. Settant’anni dopo la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo e l’Organizzazione delle Nazioni Unite, sembra che gli organismi e gli strumenti pensati per assicurare il diritto e la pace siano diventati inefficaci.
La violazione sistematica, totale, impunita dei diritti umani universali in Myanmar è sotto gli occhi di tutti. Il Portavoce Speciale delle Nazioni Unite a Ginevra sulla situazione dei diritti umani in Myanmar, Thomas H. Andrews, denuncia spesso questa violazione. L’UNICEF vede e non si muove. Lo United Nations Development Programme (UNDP) presidia a Yangon, anche con una speciale missione in Rakhine.
Chi può lascia il Paese. L’UNHCR aiuta i rifugiati, ma i birmani che si affollano sul confine con la Thailandia sono senza difese, sempre a rischio, spesso rimpatriati forzatamente.
Manca una capacità della politica internazionale di affrontare e risolvere problemi come questi che decidono del destino di un Paese.
Gli anni ’20 del XXI secolo, che vengono dopo il secolo XX così carico di lezioni di storia e di umanità, ci consegnano la debolezza della comunità internazionale nella difesa del diritto internazionale, dei diritti umani universali, della libertà dei popoli, come nel caso del popolo del Myanmar che si è espresso con libere elezioni.
Una debolezza che si rivela perfino nella incapacità di organizzare e di inviare aiuti umanitari per scongiurare catastrofi umanitarie.
Una debolezza politica che si manifesta nella difficoltà a promuovere un dialogo internazionale sul Myanmar che coinvolga i paesi in rapporto strategico con esso: la Russia, la Cina, l’ASEAN, l’India, il Giappone, la Corea del Sud, l’UE, la Gran Bretagna, l’Australia, la Nuova Zelanda. Nessuna geopolitica per il futuro dell’Asia può ignorare il Myanmar, può consentire che vada alla deriva diventando una fonte di insicurezza e di instabilità permanente per tutta l’Asia.
Oggi il Myanmar è fonte di impoverimento per l’intero continente asiatico.
Nei mesi successivi al golpe l’ASEAN, che raccoglie i dieci paesi del Sud Est asiatico, tra cui il Myanmar, ha preso posizione e tenuto contatti con la giunta. I cinque punti sui quali l’ASEAN aveva trovato consenso sono sempre stati ignorati dai militari. Dietro il lavoro dell’ASEAN, si poteva immaginare la Cina.
Terminato il congresso del Partito Comunista Cinese si può sperare in un intervento lungimirante, equilibratore della Cina, interessata a un Myanmar stabile e prospero, con il quale condivide più di 2.000 km di confine.
Nel gennaio 2020, Xi Jinping si è recato a Naypyidaw e ha incontrato Aung San Suu Kyi per celebrare i settant’anni della grande amicizia della Cina con la Birmania.
Il dialogo della Cina con gli Usa, destinato a incrementarsi dopo le elezioni negli Stati Uniti di novembre, potrebbe affrontare, insieme ad altri temi caldi, anche la situazione del Myanmar per una sua positiva evoluzione.
Una via d’uscita che liberi presto il Myanmar, che abbrevi la sofferenza del suo popolo, è quanto ci si può attendere da una politica comune della Cina e degli USA, che favorisca il dialogo tra tutti i protagonisti dell’attuale Myanmar.
Mentre si consumava la tragedia del Myanmar, il 24 febbraio 2022 la Russia invadeva l’Ucraina.
Le due situazioni oggi, per diversi aspetti, sono connesse. Il NUG sostiene la resistenza del popolo ucraino. La Russia sostiene i militari del Myanmar con la vendita di armi e la relazioni politiche.
La difficoltà della politica internazionale a fermare l’aggressione della Russia all’Ucraina è la stessa che si riscontra nei confronti del Myanmar. I media internazionali, così attenti, alcuni anni fa, alla vicenda dei Rohingya, sembrano aver dimenticato oggi sia i Rohingya sia l’intero popolo del Myanmar.
A chi interessa oggi il popolo birmano? Che ruolo ha il Myanmar nella geopolitica globale?
Domande che richiamano la condizione di altri Paesi, altri conflitti, altre sofferenze. Parliamo di una grande parte dell’umanità, dimenticata.
Nella ricerca urgente di un nuovo equilibrio nel mondo, si iscrive l’avvio immediato di trattative politiche internazionali per promuovere la pacificazione in Myanmar.
Cina e USA, principalmente, con l’intervento dell’ASEAN, e la possibile mediazione di una figura morale come Papa Francesco, possono essere i principali artefici di un dialogo politico, di una sollecitudine umana, che abbia l’obiettivo di salvare il Myanmar.
Oggi il Myanmar è una sfida al mondo. Il suo popolo sta difendendo da solo la democrazia, la sua ma anche la nostra, mentre essa è sotto pressione ovunque. La grande lezione del Myanmar oggi è questa: contro ogni dittatura, solo la verità, la pace, il dialogo, la riconciliazione assicurano il futuro di un Paese, assicurano il futuro dell’umanità.
Una rivoluzione «Never cold blooded (non a sangue freddo)», pacifica, non vendicativa.
Essa segna un nuovo inizio, «è la seconda indipendenza», dice il Presidente del NUG Duwa Lashi La.
La rivoluzione del popolo vincerà perché possiede la consapevolezza del cambiamento della storia.

4. La missione di Aung San Suu Kyi nella vita della Birmania: il filo rosso della democrazia

Dov’è oggi Aung San Suu Kyi?
Si dice che sia in una piccola dimora appositamente costruita nell’area del carcere di Naypyidaw. Invasa dal sole, dagli insetti, con acqua non buona, e scarso cibo.
Subito dopo il golpe, è stata per mesi agli arresti in un luogo sconosciuto.
È sottoposta a processo, insieme con il Presidente della Repubblica U Win Myint. Un processo farsa, politico. Con accuse di corruzione, sedizione, violazione di leggi e segreti di Stato.
Fino ad ora le sono stati comminati 26 anni di carcere, di cui 3 con lavori forzati.
Ha 77 anni, lunghi anni di arresti domiciliari alle spalle, rischi e sofferenze, personali e del suo popolo. Una vita per la democrazia, una vita per il suo Paese, in unità profonda con la sua gente. Una vita da Premio Nobel. Una vita da politica, non da icona.
Ieri osannata dall’occidente come paladina dei diritti umani, poi isolata nell’opinione pubblica occidentale per la vicenda dei Rohingya. C’è qualcosa di insufficiente nella lettura della sua storia operata dall’occidente. Dicono di lei molto di più il suo progetto politico, la sofferenza che lo ha accompagnato, l’unità con il suo popolo che non gli schemi occidentali. Nessuna corretta analisi si è sentita, del potere entro il quale era costretta a muoversi, con i militari arbitri della difesa, degli interni e dei confini.
Una sua parola poteva provocare il golpe anticipato, con danno per i Rohingya e per l’intero Myanmar.
Questa fase conferma, dolorosamente, la missione che Aung San Suu Kyi ha scelto, che il destino le ha conferito: testimone della libertà, presidio della democrazia nel suo Paese. Come una luce accesa nei decenni bui della dittatura, come una saggia coltivatrice del giardino del Myanmar, oggi di nuovo come resistente insieme a tutto il suo popolo di fronte al potere incontrollato dei militari.
Nell’isolamento dal mondo, continua ad essere il punto di riferimento, la Madre amata dalla sua gente.
Qualcosa, forse, arriva anche a lei, dal mondo esterno, specialmente le notizie più dolorose, come le recenti impiccagioni tra le quali quella del Deputato Phyo Zeya Thaw, a lei molto caro.
Questo tempo della sua vita è il tempo del silenzio, della meditazione interiore e, ne sono certa, della sua visione del futuro.
Lei resta nelle mani di Min Aung Hlaing, possibile oggetto di trattativa o di scambio in ogni momento.
Nessuna trattativa, nessun processo di riconciliazione in Myanmar potrà avvenire senza di lei. Il filo rosso della democrazia è stretto ancora nelle sue mani. Rosso come la terra della Birmania, rosso come il sangue dei suoi martiri.
È sempre tempo di resistenza per lei.
Possiamo immaginare l’ultimo dialogo drammatico tra Aung San Suu Kyi e il Gen. Min Aung Hlaing, con il rifiuto fermo di Aung San Suu Kyi di permettergli ciò che non era in suo potere concedergli. Ci sono momenti nella storia nei quali le scelte morali e politiche si impongono come un passaggio decisivo che cambia la storia e la vita.
Da molto tempo Aung San Suu Kyi vive il cammino di liberazione della Birmania. Ha scelto di viverlo. Nella sua casa sul lago Inya, nell’agosto 1988, quando i giovani la animavano fondando l’NLD, nella solitudine degli arresti, nelle campagne elettorali in mezzo al suo popolo.
Oggi neppure la sua casa le appartiene. Vive nella spoliazione più completa, senza contatti, non le appartengono neppure gli abiti che indossa, la divisa del carcere.
È sempre lei la grande paura dei militari.
Raramente un politico sceglie di mettere l’intera sua vita a disposizione del suo popolo.
Parla la sua vita. Parlano i suoi silenzi più delle parole.
È lei la luce del suo popolo, oggi indispensabile per ogni negoziazione interna e internazionale, per ogni dialogo e riconciliazione.
Quello che ora Aung San Suu Kyi sta vivendo è un compimento. Sono certa che lo stia vivendo nell’integrità del suo spirito.

5. La Birmania è nel cuore del mondo

Se la politica è lontana, l’umanità è vicina.
La Birmania è nel cuore di molti, di chi l’ha conosciuta, di chi ha incontrato la sua gente. Di chi è stato accolto dal loro sorriso, dalla bellezza della natura, dalla spiritualità buddhista che ne esprime l’anima.
Molti sono vicini oggi alla Birmania: le comunità birmane sparse in ogni continente, le organizzazioni non governative anche se oggi impedite di operare, le congregazioni missionarie, istituzioni locali e nazionali, le associazioni di amicizia.
Abbiamo dato vita ad Alliance for a Democratic Myanmar, chiedendo all’ONU che non riconosca lo State Administration Council (SAC) come governo legittimo, che mantenga la crisi del Myanmar al centro del suo ordine del giorno, che ne affronti la crisi umanitaria, che cessi il flusso delle armi verso il Paese.
Molte sono le manifestazioni che in molte città, ad ogni latitudine, sostengono la rivoluzione del popolo birmano. Una recente lotteria, organizzata da un’influencer, ha consentito la raccolta di oltre 1.700.000 dollari grazie alla messa in palio di un’opera in legno incisa da Kim Aris, il figlio minore di Aung San Suu Kyi, che fa il falegname a Londra. È il suo abbraccio con lei e con tutto il popolo birmano.
Il Myanmar è nel cuore di Papa Francesco. Più volte, costantemente, egli ricorda al mondo la sofferenza del popolo birmano. Nel novembre 2017, quando egli era in visita in Myanmar, Aung San Suu Kyi concluse il suo saluto con le parole pronunciate in italiano: «Continuiamo a camminare insieme». Il cammino continua.
Almeno 300 organizzazioni in tutto il mondo hanno sottoscritto un appello per il riconoscimento di Kyaw Moe Tun come legittimo rappresentante del Myanmar all’ONU.
Il furore della giunta militare non può spegnere la cultura.
Al riparo della giungla un contastorie birmano, con lo pseudonimo di Than Lwin Myint, ha tradotto in birmano Pinocchio di Collodi, dopo aver raccontato e illustrato una nuova storia di Pinocchio e Yamin, diffusa in Birmania e in Italia. Tradurre Pinocchio lo ha aiutato a sconfiggere la disperazione.
Scrivono i poeti, e la loro voce giunge a noi.
Alcuni di loro sono stati uccisi: Kyi Zaw Aye, Kyi Za Win, Khet Thi.
Ko Ko Thet, un poeta birmano che oggi vive all’estero, incarcerato nel 1996, sta traducendo i poeti birmani dell’ultima generazione per il mondo intero.
Conta qualcosa, nel mondo, il patrimonio di sofferenza, di disperazione, di devastazione che attraversa la vita di un popolo? Conta qualcosa la risorsa di compassione, di speranza, di sogno, di cultura, di donazione che è alimentata da una rivoluzione?
Questo sta già cambiando il Myanmar, sta cambiando anche noi. Sta cambiando il mondo all’inizio del XXI secolo.

Ascoltiamo il poeta Khet Thi:

I don’t want to be a hero
Traduzione inglese di Ko Ko Thet

I don’t want to be a hero,
I don’t want to be a martyr,
I don’t want to be a weakling,
I don’t want to be a fool,
I don’t want to support injustice.
If I have only a minute to live,
I want my conscience to be clean for that minute.

Non voglio essere un eroe
Traduzione italiana di Simone Santini dalla versione inglese

Non voglio essere un eroe,
non voglio essere un martire,
non voglio essere un debole,
non voglio essere uno stupido,
non voglio supportare l’ingiustizia.
Avessi un solo minuto da vivere,
voglio che la mia coscienza sia pulita per quel minuto.

Albertina Soliani

È Presidente dell’Istituto Alcide Cervi in Italia, per la memoria della Resistenza.
È stata membro del Parlamento Italiano per l’Ulivo e il Partito Dmeocratico, nel Senato della Repubblica, dal 2001 al 2013, ed è stata membro dell’Assemblea del Consiglio d’Europa.
Dal 2008 al 2013 è stata Presidente dell’Associazione Parlamentare Amici della Birmania.
È stata Sottosegretario alla Pubblica Istruzione nel 1° Governo Prodi dal 1996 al 1998.
Ha partecipato ai movimenti delle donne, nel 1995 ha fatto parte della delegazione italiana alla IV Conferenza Mondiale delle Donne organizzata dall’ONU a Pechino.
Vive a Parma.

Questo articolo è disponibile anche in: Inglese

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