La situazione nello stato Rakhine
In questi giorni diversi articoli hanno posto all’attenzione della pubblica opinione la condizione dei musulmani nello stato del Rakhine nel nord ovest del Myanmar. A questo proposito ho raccolto di seguito alcune considerazioni che derivano dall’attenzione decennale dell’Associazione per l’Amicizia Italia Birmania per la situazione in Myanmar e dai nostri contatti e dalle nostre conversazioni con tanti abitanti della Birmania. Credo infatti che si importante poter situare la situazione del conflitto nello stato Rakhine in un contesto più ampio sia dal punto di vista storico che dal punto di vista delle dinamiche sociali del resto del Paese.
Vorrei innanzitutto ricordare che la Costituzione Birmana assicura all’esercito un peso politico molto grande. Il 25 per cento dei seggi è assegnato per nomina ai militari, che controllano inoltre tre ministeri cardine: interni, frontiere e difesa. Le decisioni riguardanti la pubblica sicurezza nazionale sono assunte dai generali senza che sia richiesto un avvallo da parte del governo.
Nei 18 mesi dal giorno del suo insediamento, il Governo di Aung San Suu Kyi, il primo governo democraticamente eletto dopo quasi 70 anni di dittatura in Birmania, ha dimostrato con i fatti di avere come prima priorità quella della pacificazione nazionale. Cosa peraltro non facile in un paese in cui convivono oltre 130 etnie diverse, alcune delle quali impegnate in una lotta armata da decenni contro l’esercito.
Aung San Suu Kyi ha riunito i rappresentanti dei 17 principali gruppi etnici del paese nella Conferenza di Panglong del XXI secolo, iniziata il 31 agosto 2016 con un intervento del segretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki Moon. La conferenza ha come obiettivo la demilitarizzazione dei gruppi armati garantendo loro una maggiore partecipazione al governo nell’ambito di un sistema federale. Ko Ni, membro di spicco del governo di Aung San Suu Kyi, è stato assassinato con un colpo di pistola alla nuca il 29 gennaio 2017. Era un esperto costituzionalista e stava studiando come modificare la costituzione Birmana in senso federale.
Lo scorso anno, Kofi Annan, ex segretario delle Nazioni Unite, ha ricevuto da Aung San Suu Kyi l’incarico di condurre la “Rakhine State Advisory Commission”, con lo scopo di analizzare e trovare una soluzione alle divisioni che hanno infuocato la regione. Kofi Annan ha presentato i risultati del lavoro della commissione il 24 agosto 2017. Il suo rapporto è stato duramente criticato da esponenti delle forze armate Birmane.
Per un’élite militare che ha in mano la maggior parte della ricchezza della Birmania e il completo controllo dell’esercito è facile agire in modo da minare la credibilità del primo governo democratico Birmano e limitare la sua capacità di cambiare la situazione del Paese. Voglio aggiungere che diversi Paesi occidentali intrattengono da anni rapporti d’affari con l’esercito Birmano. Non a caso i recenti viaggi in Italia (Novembre 2016) e in Germania ed Austria (Aprile 2017) di Min Aung Hlaing, Comandante in capo dell’Esercito Birmano e diretto responsabile dell’operato dell’esercito, non sono stati occasione per rivolgere critiche o chiedere conto delle operazioni in atto contro i Rohingya. Ad Aung San Suu Kyi si chiede di prendere posizione sulla questione in quanto Premio Nobel, mentre non le si riconosce il faticoso ruolo di politica impegnata nella difficilissima battaglia non violenta per la ricostruzione del tessuto democratico e per la partecipazione di tutti i cittadini del Myanmar, a qualsiasi etnia o religione appartengano.
Sono convinto che molte persone ed istituzioni che hanno supportato la battaglia di Aung San Suu Kyi nei suoi venti anni di arresti domiciliari vogliano sostenere il faticoso cammino della Birmania verso la democrazia e la riconciliazione.
Papa Francesco ha dimostrato il suo grande sostegno con fatti concreti: la nomina a Cardinale di Charles Maung Bo, vescovo di Yangon nel febbraio 2015, il ristabilimento di relazioni diplomatiche tra la Santa Sede e il Myanmar nel maggio 2017 e l’annuncio del suo prossimo viaggio in Myanmar in Novembre.
E’ tramite il nostro sostegno e quello della comunità internazionale che la Birmania potrà proseguire nel suo cammino democratico. Per questo è necessario un ulteriore sforzo di comprensione della situazione. Non è pensabile che un governo che si è insediato ufficialmente nel marzo 2016 risolva in pochi mesi conflitti che si sono trascinati da decine di anni. Facili giudizi non supportati da un’adeguata comprensione della situazione Birmana non fanno altro che indebolire il governo di Aung San Suu Kyi, che è la più grande speranza per una compiuta democrazia in Birmania.
Un commento
Raffo
Ma per favore, sentire dire da un italiano queste cose, nonostante si sa che in birmania è in atto un genocidio, è proprio scandaloso, Vergognatevi!