Un viaggio per unire due popoli, un viaggio per dare speranza al futuro.
Cari Amici,
sono ancora in tempo a farvi gli auguri, che avevo nel cuore nei giorni vissuti in Birmania e in quelli precedenti, così intensi nei preparativi del viaggio.
Da diversi anni il mio augurio in queste feste vi raggiungeva con il costante richiamo ad Aung San Suu Kyi. Una vicinanza che questa volta è diventata l’abbraccio a casa sua. Dalla solitudine degli arresti domiciliari al canto del Va’ Pensiero di un gruppo di quaranta persone accanto a lei. Questa è la storia. Viviamo i miracoli, con stupore e con naturalezza.
Siamo stati in Birmania nell’ultima settimana di dicembre. Una lunga storia di amicizia, nata una decina di anni fa con Giuseppe Malpeli che è andato là, la prima volta, con l’urna delle ceneri diLucky sulle spalle. E poi è arrivato da lei, agli arresti, incontrandola nel buio e nella sofferenza del suo Paese e della sua casa. Da allora non l’abbiamo lasciata sola, umanamente e politicamente. Non la lasceremo mai sola.
Un gruppo numeroso, il nostro, di persone diverse per cultura, età, professione. Non tutte si conoscevano. Con Giovanni ed Emanuele, di 10 e 8 anni, bravissimi.
Abbiamo incontrato la Birmania, la sua bellezza, la sua cultura, la sua spiritualità.
Arrivati a Rangoon, sono andata subito fuori, al cimitero, sulla tomba di U Win Tin. Ero stata da lui l’anno precedente. Nel tramonto siamo stati alla Pagoda Shwedagon. Ho sostato presso il Monumento agli studenti vittime della rivolta contro gli inglesi nel 1920, posto ad occidente, presso il quale Me Soe, sorella di Lucky, si era fatta leggere da un’amica che sa l’italiano il mio libro “Tutto si muove. Tutto si tiene”. Me Soe è morta alcuni mesi fa, a 28 anni. Suo figlio Ko Ny è oggi in un monastero in Cina, al di là del confine. La storia continuerà con lui.
Il nostro rapporto con la Birmania è innanzitutto una storia di relazione con le persone, di amicizia, di condivisione. Per questo siamo andati là, gli amici si incontrano.
Un rapporto speciale con Aung San Suu Kyi, e con molte altre persone del suo popolo. Senza sapere l’inglese, senza usare Twitter e poco Facebook, senza calcolo. E’ una storia anche spirituale, nell’intreccio di culture diverse.
Il gruppo ha vissuto questa dimensione collettiva, soprattutto interiore, e il senso di una condivisione umana e politica con il popolo di un Paese bellissimo, oggi sulla soglia di una rinascita economica, sociale, democratica, dopo più di cinquant’anni di dittatura.
E’ stato un viaggio atipico che ci ha fatto conoscere la Birmania, la solidarietà, la democrazia presso di loro e dentro noi stessi.
I primi giorni li abbiamo vissuti a Bagan, la valle dei molti templi buddisti. Abbiamo frequentato mercati, visitato poveri villaggi, siamo scesi in barca sul fiume Irrawaddy. Vecchie barche colorate, ricordano quelle di Cesenatico. La notte di Natale l’abbiamo trascorsa lì, in una notte di festa. Tra noi, con rispetto e discrezione abbiamo letto le letture della Messa e l’omelia straordinaria di Mons. Charles Bo, Arcivescovo di Rangoon, che ce l’aveva mandata. Aveva anche cercato un sacerdote per noi, ma i contatti là sono lenti, nessuno aveva potuto raggiungerci. Abbiamo cantato i canti di Natale. Cambiare lo scenario serve, scopre l’essenziale.
Abbiamo cominciato lì a incontrare sulle strade i bambini, ci raggiungevano ad ogni meta successiva.
Siamo poi andati al Lago Inle, una bellezza. Tra pochi anni potrebbe essere a rischio, hanno disboscato molto attorno. Sembra di essere a Venezia. Noi su otto lance lanciate sull’acqua intorno ad orti galleggianti, fatti su tappeti di acqua. Dicono che i pescatori evitino così di pagare le alte tasse sui terreni. La terra in Birmania è contesa, i generali e il governo la prendono per sé espropriando i contadini. Un contenzioso che abbiamo successivamente discusso con loro e con i loro avvocati nella sede della NLD a Rangoon.
Abbiamo visto le donne lavorare la seta, e la lacca. Nei villaggi le abbiamo viste preparare il cibo, con una grande povertà di mezzi. Sempre accoglienti e sorridenti, i birmani. Molti i monaci e le monache tra la gente.
Immersi così nella vita del popolo siamo tornati a Rangoon. Abbiamo subito reso omaggio alla memoria della Birmania. Il gruppo si è recato al Mausoleo dei Martiri, che ricorda Aung San e i suoi otto compagni del Comitato Esecutivo uccisi nell’agguato del 19 luglio del 1947 alla vigilia dell’indipendenza. Aveva 32 anni, è il Padre della Patria. Con me e Giuseppe hanno deposto la corona di rose rosse, portata da Alberto e Guido Brunazzi, i pronipoti di Giacomo Ferrari, il comandante Arta della Resistenza parmense, le persone che avevano tra di noi ruoli istituzionali, Roberta Mori consigliera regionale e Mirca Carlettisindaco di San Polo D’Enza, Aldo Montermini, figlio di Mirca Polizzi e Pio Montermini, comandanti partigiani insieme a Gianna Montagna figlia di una staffetta partigiana. Ciascuno del gruppo ha deposto una rosa rossa.
La sera prima avevo detto al sindaco Mirca: “dovevo dirti di portare la fascia tricolore…”. E lei: “Ce l’ho”. Il senso delle istituzioni e della propria funzione era in quelle due parole. Dopo, in silenzio, abbiamo cantato l’inno nazionale italiano. Quando l’abbiamo raccontato ad Aung San Suu Kyi ha detto: “Non è mai accaduto, chi sa cosa avranno pensato (le autorità)”. I gesti normali della democrazia in un Paese non democratico, questo abbiamo vissuto. E’ questo che disorienta il potere.
Era la prima volta che un gruppo italiano così numeroso si recava al Mausoleo.
Siamo poi stati in visita alla Casa Museo di Aung San, con i suoi libri, l’arredamento di allora, quando Aung San Suu Kyi era piccola. Rispetto a un anno fa è sparito il registro delle firme dei visitatori.
Poi il Museo Nazionale, molto bello, con i costumi di tutte le etnie (almeno 138).
Con la visita al Free Funeral Service Society è iniziata la parte sociale del viaggio. Lì, un grande attore, Kyaw Thu, con sua moglie ha dato vita a una Fondazione per fare i funerali gratuiti alla povera gente, e poi per ambulatori e scuole. In Birmania non ci sono né servizio sanitario né stato sociale, sono le associazioni, i privati o i partiti, come NLD, che aprono, come possono, scuole e ambulatori.
Siamo stati a conoscere le due case (baracche di bambù) di Phyu Phyu Thin dove accoglie i malati di Aids e la costruzione del nuovo Centro in muratura. Vanno avanti con le offerte che arrivano. Un grande umanità “cura” questi malati nella diffidenza dei più, con poche medicine. Il Centro è sostenuto da NLD, sta nascendo così il servizio sanitario in Birmania. I militari non se ne sono mai curati, anzi hanno messo in carcere Phyu Phyu Thin perché parlava di Aids.
Il 29 dicembre, alle ore 15.45, il pullman ci ha portato davanti al cancello della casa di Aung San Suu Kyi su University Road. Emozionati e composti sapevamo che stavamo vivendo un momento forte della nostra vita. Quaranta persone sono molte, ve l’assicuro. Sono il segno di un’amicizia diffusa, di un sostegno visibile.
Quando Aung San Suu Kyi è entrata nella saletta della sua casa dove ci avevano fatto accomodare, nel luogo dove riceve i Capi di Stato, ha detto sorridendo: “Com’è che non vi ho sentito?”.
Ci siamo sedute sul divanetto contro la parete, sotto il ritratto di suo padre. La conversazione molto spontanea, con l’aiuto di Carlo che traduceva, si è avviata con le mie parole: “Siamo tanti, siamo una cosa sola”. “Fosse così anche per l’NLD!”, ha subito commentato.
Ci ha detto che si attende di più dall’Europa, specialmente da alcuni Paesi europei. Penso che l’Italia fosse inclusa. Non solo business con il suo Paese ma politica e democrazia. Ho pensato: la debolezza della politica in Italia e in Europa, questo è il nostro problema. Lo si capisce molto bene quando si è all’estero.
Le abbiamo presentato i doni: un piatto di vetro di Murano con il pavone della Lega su fondo rosso e il suo nome, la lettera del Sindaco di Parma e lo striscione colorato delle Scuole dell’Infanzia, i disegni del pavone di Giovanni ed Emanuele, un disegno della scuola Edith Stein, il video degli studenti di Parma, un’offerta per la sua Fondazione destinata alla scuole, la penna dell’Università di Parma, la Costituzione italiana in inglese (la loro è un tomo di norme intricate) e la Legge di Parità dell’Emilia Romagna, il cd de La Forza del Destino e il libro del Teatro Regio, mandati dal Teatro, il ricordo del Club dei 27 – “Li saluto uno per uno”, ha detto –, una punta di Parmigiano-Reggiano, che ha subito riconosciuto. Ha ricevuto da me la lettera della Fondazione De Carli che le conferisce il Premio annuale per il 2015 nella forma di una borsa di studio per uno studente birmano.
Quando ho citato il Salmo “Il Signore è il mio pastore”, inserito in birmano nella terza edizione del mio libro, lei ha precisato: “Il Salmo 23”. Le ho anche donato il libro con l’intera partitura dell’Aida, l’opera che forse predilige.
Siamo stati insieme con grande spontaneità e naturalezza. Poi la sorpresa: in piedi, diretti da Francesca Mariani, abbiamo cantato per lei Va’ Pensiero. Un azzardo, l’aveva ascoltato a Parma dalla Corale Verdi. L’avevamo provato in precedenza, a Bagan e sul pullman. Io ripensavo al volto perplesso di Andrea Rinaldi, il Presidente della Corale Verdi, quando gli avevo detto della nostra intenzione.
Nella sua casa, dove era stata rinchiusa agli arresti per molti anni, questo nostro canto era il nostro abbraccio, l’abbraccio di Parma e dell’Italia. In fondo, eravamo andati fin là per cantarle, lì, Va’ Pensiero.
I significati più profondi sono racchiusi nei gesti e nelle parole. Il significato del nostro viaggio poteva stare tutto qui. Poi siamo andati sulla veranda, che dà sul prato e sul lago, e lì ha tagliato la torta e offerto il tè a tutti.
Ci siamo scambiate, da sole, alcuni pensieri, sull’importanza della spiritualità per lei e per me.
Poi la foto di gruppo e ci ha accompagnato sotto braccio fino al cancello. Voleva vedere come eravamo arrivati, in pullman. Sulla strada le macchine rallentavano, le persone sgranavano gli occhi di fronte a una scena così inusuale. Ci siamo abbracciate. Ha detto che tornerà a Parma, e a me di tornare da lei. Un arrivederci.
Ciascuno ha portato con sé il suo personale incontro con lei e tutti insieme il senso di un impegno collettivo che continuerà. La sera e il giorno successivo abbiamo incontrato nella sede dell’NLD, sotto la guida di U Tin Oo, ex generale di 88 anni da sempre al fianco di Suu Kyi, i contadini, le donne, gli studenti, gli insegnanti, gli avvocati. Le persone del gruppo si sono confrontate con loro, secondo le loro competenze. Abbiamo preso impegni, collaboreremo con loro.
L’ultimo giorno ho incontrato al mattino presto nella loro casa le Suore della Provvidenza, che conosciamo in Italia, collaboreremo con loro per la prevenzione in sanità.
Poi siamo andati dall’Arcivescovo Charles Bo, un caro amico da anni, e abbiamo visitato la Cattedrale. Ci ha ospitato a pranzo.
Da lui abbiamo incontrato alcuni padri Gesuiti, rientrati in Birmania da pochi anni dopo la cacciata del 1962. Rientrati come uomini d’affari. Sono militanti, hanno costruito tremila case e fanno formazione. Ci hanno detto che lì la Compagnia è giovane mentre altrove invecchia.
Caro e amichevole l’incontro con l’Arcivescovo, a lui abbiamo donato la statua dell’Angiol d’Or. Glielo ho detto nella lingua di Parma. E gli abbiamo consegnato la lettera del Vescovo di Parma Mons. Solmi. L’abbiamo invitato a venire nella nostra città.
La domenica successiva Papa Francesco lo ha indicato tra i prossimi Cardinali. E’ un salesiano di un povero villaggio birmano. La Chiesa Cattolica là è l’1,3%. La Chiesa delle periferie di Bergoglio, che noi stiamo incontrando con gioia, che Giuseppe anni fa è andato a cercare da solo, quando nessuno dall’occidente andava ad incontrare Charles Bo. Saremo in San Pietro, e vedremo lì a metà febbraio la gloria della Birmania.
Alla mezzanotte del 31 dicembre eravamo nel grande aeroporto di Singapore. Il nostro canto si spargeva sorprendente nei larghi spazi e tra i negozi, abbiamo brindato con le bottigliette di acqua insieme ad alcuni indonesiani.
Tornati in Italia, abbiamo capito che il nostro racconto diffonde gioia, anche se non è facile raccontare e molto resta indicibile. Abbiamo subito incontrato la diffusa sofferenza dell’Italia che avevamo lasciato, resa anche più acuta dalle feste. Mi è bastato parlare con i commessi del supermercato che frequento da molti anni. Ho ripreso a leggere i giornali. Vorrei che l’Italia potesse darsi un Presidente della Repubblica all’altezza della sua dignità e dell’attesa del mondo. Il suo nome per me è Romano Prodi. Dipende solo da noi, ma il problema è proprio questo.
Che il 2015 sia buono per tutti e ci veda impegnati ogni giorno per far crescere la speranza in Italia, in Birmania, nel mondo.
A tutti coloro che hanno partecipato al viaggio e a tutti coloro che ci hanno accompagnato, un grazie speciale. Siamo stati così bene insieme e grande è la nostra reciproca gratitudine.
Un abbraccio
Albertina Soliani