CORRISPONDENZE DA MAE SOT (3)
Mae Sot.
31 Agosto 2016
Albertina mi chiede spesso se c’è speranza tra la gente qui.
Non so rispondere o forse non voglio, perché spesso la risposta sarebbe no.
Le condizioni di vita nei campi rifugiati sono dure. Manca il cibo, manca l’acqua, manca l’accesso a cure primarie. Si muore di malaria, di tubercolosi, d’infezioni della pelle, d’intossicamento, di fame, di violenza.
Sono tanti quelli che sono nati, cresciuti e anche morti all’interno dei campi. Non hanno visto nient’altro.
Ma i campi non possono rimanere aperti per sempre.
Verranno chiusi, come e quando ancora non si sa.
Ma da più parti arrivano pressioni, tagli ai fondi, piccoli gruppi vengono ricollocati.
Il governo thailandese? Il governo birmano? Le Nazioni Unite? Le varie ong e i donatori?
Non sono la persona adatta, né questo è il luogo per fare un’analisi dettagliata delle politiche e dei vari interessi in gioco.
Ma, sta di fatto, che i campi verranno chiusi.
E tanti sono i birmani che non vogliono tornare in Birmania. Non la riconoscono come casa, hanno paura.
Qualche giorno fa ho conosciuto Honei Laa, 64 anni, Karen. Vive nel campo di Mae La da 45 anni. Quando ne aveva solo 19, i militari hanno bruciato il villaggio dove viveva, hanno ucciso i suoi genitori e violentato lei. È riuscita a scappare, ha trovato rifugio a Mae La e non se n’è più andata. Qui, dice, ha una casa per quanto senza acqua corrente né elettricità, si è sposata e insieme a suo marito gestisce una piccola bancarella dove vende banane e sigarette, guadagnando quanto basta per arrivare a fine mese. I suoi cinque figli sono nati qui e qui vanno a scuola. Le chiedo se vuole tornare in Birmania: “E perché? In Birmania dove? Il mio villaggio è stato raso al suolo, i militari e i gruppi etnici armati continuano a combattere, il confine è cosparso di mine. Almeno qui possiamo sopravvivere”.
Tante storie simili alla sua.
Come quella di Aung Cho Oo, 17 anni, Rohingya. Vive nella discarica di Mae Sot, dove passa la giornata a setacciare rifiuti: “Non posso definirmi Rohingya, non posso definirmi birmano, non posso definirmi bengalese. Lavoro 16 ore al giorno, non sempre mangio. Ma almeno qui nessuno prova a uccidermi. Perché dovrei tornare indietro?”.
Secondo le ultime stime delle Nazioni Unite, ci sono circa 150000 birmani riconosciuti ufficialmente come rifugiati e stanziati nei nove campi profughi al confine tra Thailandia e Birmania. Circa altri 10000 vengono riconosciuti come IDP –internally displaced persons. Ancora, vengono registrati circa due milioni di migranti birmani distribuiti in campi di prima accoglienza in Thailandia.
Queste le cifre registrate.
Ma quanti sono quelli che non sono stati ufficialmente riconosciuti? Quanti i dispersi? Quante le morti e le nascite di cui nessuno tiene nota? Quanti i morti durante i conflitti etnici? Quanti quelli feriti e uccisi dalle mine?
Oggi ero alla Mae Tao Clinic, la clinica che fornisce assistenza ai rifugiati e migranti birmani. Ero andata per intervistare la direttrice, ma nel mezzo della chiacchierata viene chiamata dalle infermiere per un intervento di urgenza e mi chiede di seguirla.
Sala operatoria: una stanza senza pareti, tetto di lamiera, tende di plastica intorno. Sul tavolo operatorio è disteso Thatti, 25 anni. È nato nel campo profughi di Mae La. Stava cercando di tornare in Birmania. È saltato su una mina, la gamba destra è in frantumi. Deve essere amputata. Niente anestesia totale, mancano i mezzi. La dottoressa mi chiede di stringergli la mano, mentre le infermiere cercano di tenerlo fermo, proverà un dolore allucinante. Thatti guarda la dottoressa e le dice: “Mi raccomando, faccia un buon lavoro. La gamba non mi serve, ma devo vivere. Devo tornare al mio villaggio in Birmania. Li hanno bisogno di insegnanti e io ho avuto la fortuna di andare a scuola”.
Ripenso alla domanda di Albertina.
Forse c’è speranza.