“Good morning teacher”
La città si sveglia presto, alle 5.30 è già un trionfo di suoni, di colori e di odori.
Che sia colazione, pranzo o cena si mangiano sempre e solo riso e noodles con verdure, pollo e pesce.
Per i giorni di festa si aggiungono rane e insetti fritti e frutta secca.
All’alba i baracchini, che gentilmente voglio chiamare ristoranti, disseminati per tutte le vie, cominciano a friggere e a cuocere.
Se penso a Mae Sot penso a spezie e chilli.
Fiumi di persone iniziano a inondare le strade con carri, carretti, moto, mucche e gli immancabili tuc tuc.
Chi si dirige verso il mercato, che è anche il luogo di ritrovo e d’incontro, chi va verso le cave, dove spezzerà pietre per dodici ore. Chi si incammina verso i campi di riso. Chi semplicemente in strada ci vive perché la polizia gli ha sequestrato la casa o perché è troppo denutrito per sostenere i massacranti ritmi di lavoro che vigono qui.
Bambini nati in famiglie benestanti (per benestanti intendo famiglie con uno stipendio mensile di 40 o 50 euro) che in divisa, con ben in vista lo stemma della Thailandia, si dirigono a scuola.
E poi ci sono i ragazzi e i bambini birmani: hanno Lacoste bucate, jeans Levis strappati, magliette piene di luccichini. Indossano i nostri vestiti, quelli che noi scartiamo perché appena rovinati o passati di moda e che spediamo a loro per alleviarci la coscienza e illuderci di aver fatto qualcosa per aiutarli.
I primi giorni sono quelli fondamentali. Sono la fase dell’inserimento. Sono quelli in cui ti preseti e reclami il tuo posto, quelli in cui costruisci i primi veri legami. Sono i giorni in cui ti domandi “ma io cosa diavolo ci faccio qui?”, “ce la farò?”, “voglio tornare a casa e dimenticare tutto questo dolore e povertà”.
Il corpo si adatta facilmente ai cambiamenti.
Caldo soffocante, umidità, piogge torrenziali, tre o quattro ore al massimo di sonno per notte e poi riso, riso e ancora riso. Ci si abitua. Chi fatica ad abituarsi è la testa.
Qui non ci sono piccole o mezze emozioni. La gioia è una gioia enorme, il dolore è un dolore enorme, la frustrazione è una frustrazione enorme. È tutto amplificato.
Si è così pieni di emozioni da sentirsi sul punto di esplodere e vuoti allo stesso tempo.
Ma nonostante tutta la fatica e lo smarrimento e il senso di impotenza, ne vale la pena.
Perché nessun vestito di marca può regalare la stessa gioia del ricevere in dono una sciarpa da una vecchina senza denti e vestita di stracci che lavora 14 ore al giorno al mercato per potersi comprare da mangiare.
Nessun ristorante coi suoi cibi prelibati può essere meglio di una tazza di tè, con formiche e sabbia, ma offerta da una famiglia di rifugiati che vive accampata in otto sotto una tenda.
E niente, niente al mondo potrà mai dare altrettanta gioia quanto uno sciame di bambini che ogni mattina mi rincorre a perdifiato, con dei sorrisi da far girare la testa, per urlarti “good morning teacher!”.
E allora il non avere un frigorifero pieno di leccornie, dormire poche ore a notte, lavarsi con l’acqua gelata e convivere coi monsoni lontano da casa e da tutti gli affetti… ne vale la pena.
Diario di Clelia D’Apice